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Boniperti, l'ultima intervista: «La Juve non è nel mio cuore, è il mio cuore»

Presidente, le piace questa Juventus? Giampiero Boniperti sospira, quasi a lasciare intendere che la domanda posta a lui quasi non ha senso. «Senta, può giocare bene o meno bene, ma io quando vedo un giocatore che indossa quella maglia tifo per lui, è più forte di me, è un legame indissolubile». La leggenda bianconera compie 90 anni, non parla volentieri, ma non tradisce il suo cuore a strisce bianche e nere. «Allo stadio non vado più ma non perdo mai la partita in televisione, le vedo veramente tutte. E ovviamente sono felice se vince e non mi piace vederla perdere». L’uomo ha sempre incarnato l’essenza della juventinità. Tifoso da bambino, giocatore da quando era adolescente, presidente da adulto: un percorso dritto e coerente come la sua persona, carismatica e iconica per milioni di juventini.
Boniperti ha attraversato le epoche della Juventus e del nostro Paese, con il pragmatismo contadino di cui non solo non si è mai vergognato, ma ha fatto sempre tesoro, e con lo stile che gli permetteva di dialogare con Gianni Agnelli, insieme al quale ha formato una coppia indissolubile il cui ricordo fa sciogliere qualsiasi tifoso sopra i quarant’anni e inorgoglire tutto il popolo bianconero.
«La Juve non è soltanto la squadra del mio cuore. E’ il mio cuore», ripete sempre. Uno dei suoi aforismi preferiti e forse il più romantico. Meno conosciuto di quello divenuto così immortale da essere citato in continuazione ed essere perfino stampato sul colletto della maglia nella stagione 2013-14: «Vincere non è importante. E’ l’unica cosa che conta». La summa dello juventinismo (figlia di una frase analoga pronunciata da Vince Lombardi, coach dei Green Bay Packers, grande team della Nfl Anni 60) e spesso male interpretata. Perché non è uno slogan arrogante, ma una filosofia di vita che, in fondo, è figlia di un’altra pepita di saggezza con cui il senatore Giovanni Agnelli, fondatore della Fiat, aveva impostato il suo modo di lavorare: «Una cosa fatta bene può sempre essere fatta meglio».
Qui infatti non c’entra il barone De Coubertin, apparentemente sbeffeggiato dalla smania di arrivare primi dei bianconeri, perché la concezione del mondo juventina è un austero e continuo tendere alla perfezione, o quanto meno al miglioramento o al raggiungimento di qualcosa più in là, senza accontentarsi mai e senza mai sbracare in nome della sobrieta? sabauda. E’ lo sport inteso come ricerca di confini sempre nuovi e, soprattutto, come storia infinita che trova continuita? fra le generazioni. Un po’ come Giusto Gervasutti, l’immenso alpinista degli Anni 30 e 40, che dopo ogni sua grande conquista, in cima alla vetta, veniva pervaso da una pro-fonda malinconia e riusciva a placarla solo cercando con gli occhi altre vette da conquistare. Boniperti, da presidente, era vittima della stessa mania e altro che pullman scoperto! I giocatori delle sue Juventus ricordano sorridendo le loro feste per gli scudetti o le coppe: «Arrivava nello spogliatoio con la bottiglia di spumante. Stappava, brindava e un minuto dopo il cin cin era lì che sottolineava le fasi della stagione più critiche, gli errori da non commettere più, gli obiettivi per la stagione successiva». Pancia piena? No, con Boniperti non avevi il tempo di riempirla. E quello spirito è stato tramandato e periodicamente rinasce nei cicli vincenti bianconeri, come quello che sta vivendo la societa? juventina, spinta dalla famelica voglia di vincere di stampo bonipertiano.
Lui che da giocatore aveva iniziato da spettatore privilegiato e ammirato dell’epopea del Grande Torino, del quale fu fiero rivale, ma anche amico. Poi toccò anche a lui vincere e trionfare con le scarpe chiodate ai piedi. Quelle che consegno? al magazziniere il 10 giugno del 1961: «Tienile tu, a me non servono più». Inutile l’insistenza di Gianni Agnelli, aveva deciso di ritirarsi e non tornò indietro. Spiegando, più avanti, nella sua autobiografia: «La Juve, il sogno della mia vita. La sognavo davvero. Perché io, che portavo all’occhiello il distintivo bianconero, avevo in quegli anni un solo desiderio: giocare almeno una partita di Serie A con la maglia bianconera. Me ne sarebbe bastata una, ero sicuro, per essere felice per sempre. E’ andata meglio: in campionato ne ho giocate 444. Ho fatto la mia parte senza sacrifici. Perché ho dato quello che avevo dentro. Sono un uomo felice». Anche adesso, alla soglia dei 90 anni: «Un regalo? Non chiedo nulla, ho avuto già tanto». Auguri presidente.


Fonte: http://www.tuttosport.com/rss/calcio/serie-a


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