Si stacca un altro pezzo dell’antico affresco, sotto i graffi spietati del tempo. L’Ernesto, il cumenda Pellegrini Ernesto figlio di ortolani del quartiere Morsenchio, non era poi così antico per l’età. A 84 anni non si può dire così. Ma molto più remoto, obsoleto, ormai archeologico, appare il suo tempo, una stagione particolare del calcio e dell’Inter. Visto da qui, dal tempo dei principi e dei fondi, che prestano soldi al presidente rimasto senza liquidi chiedendo in pegno le azioni, così che quando il disperato non riesce più a restituirli loro si tengono le società, in questa nuova galassia il pianeta dei Pellegrini appare una meteora ormai partita per la tangente, fuori dalla dimensione spazio-tempo, dispersa nel nulla.
Non erano tutti santi nemmeno quelli, figuriamoci, a maneggi e taroccamenti non dovevano prendere lezione da nessuno, ma tra di loro si poteva spesso distinguere nitidamente la figura inconfondibile del galantuomo, quel genere di persona che in tutte le epoche, oggi un po’ meno, riesce a concludere affari, a mandare avanti imprese, a gestire uomini con il garbo e il rispetto di un’indole signora. Era un mondo gentile, il mondo dell’Ernesto. Costruito dal niente delle sue origini, certe volte dava l’impressione d’essere la Venere del Botticelli capitata per caso in un lupanare prima della Legge Merlin.
Le origini, mai tradite. Portate nell’anima e negli atteggiamenti come impronta perenne, nelle diverse stagioni della vita. Diploma in ragioneria al Verri di Milano, comincia a lavorare subito, nell’epocale Milano del fare, di molto precedente alla debosciata Milano da bere. Anni pieni del Boom, anni Sessanta, primo impiego da contabile nella ditta Bianchi, 50.000 lire al mese. Il ragazzo ci sa fare, ha voglia di crescere, impara alla svelta e ci dà dentro senza guardare l’orologio. Nel giro di poco tempo, diventa capo della contabilità e responsabile della mensa. In quella stagione di lavoro parossistico, a testa bassa, cresce il bisogno di mangiare sul posto di lavoro. Il Pellegrini Ragionier Ernesto fiuta l’andazzo e nel 1965 fonda l’Organizzazione Mense Pellegrini, prima pietra di quello che negli anni diventerà l’impero Pellegrini, passando per buoni pasto (1985), pulizie e servizi (1996), distribuzione automatica (2000), fino al welfare aziendale (2015).
Partito da Milano, darà da mangiare a mezzo mondo, con aziende in Angola, negli Emirati, in Nigeria, in Congo. Nel 2020, la galassia Pellegrini raggiunge i 650 milioni di fatturato, con 9000 dipendenti in organico.
Sposato con la sciura Ivana, cresce l’adorata figlia Valentina, che poi lo rileverà nella stanza dei bottoni. Ma la seconda figlia, o la seconda moglie, è chiaramente l’Inter. Nel gennaio 1984 la compra da Ivanoe Fraizzoli. Sotto la sua gestione, scudetto dei record (con vittoria da 2 punti) nella stagione 1988-1989, Coppa Uefa 1991 e poi ancora nel 1994. Poco dopo, nel febbraio 1995, la cessione a Moratti.
Più delle vittorie, di quella gestione resta lo stile. Un piccolo mondo di famiglia, benchè ricco e organizzato, che Pellegrini tiene assieme con i metodi di sempre. Non è un caso che gli piacciano i tedeschi. Con lui arrivano Rummenigge, Matthäus, Klinsmann, Brehme, i volti e i nomi di un’indimenticata epopea deutch. Spiegano molto, spiegano quasi tutto, le parole di uno dei cocchi, quel Klinsmann chiamato amabilmente dai suoi tifosi Pantegana: «Pellegrini ci metteva l’affetto di un padre. Sapeva viziare e sapeva diventare severo. Applicava sempre il mantra che lo assisteva nelle sue mense, l’idea che lì il capo mangia accanto all’ultimo apprendista, imparando sempre qualcosa…».
È normale ricordare adesso il grande presidente taglio umano, ai giorni nostri quasi personaggio di fantasia. Diciamo tutti è morto Pellegrini, glorioso presidente dell’Inter. Ma dopo tutto è proprio adesso, accompagnandolo nelle insondabili infinità celesti, il momento di allargare doverosamente il discorso: assieme agli interisti, c’è tutto un mondo di ultimi, di umanità nascosta e negletta, che lo piange se possibile con malinconia ancora più stringente.
C’è una data e ci sono fatti soavemente concreti. Dicembre 2013, Pellegrini vara la Fondazione che porta il suo nome. È una onlus che serve in tavola per i più poveri e i più disperati. Il ristorante è intitolato a Ruben, un senzatetto morto assiderato in una baracca, persona che Pellegrini aveva conosciuto da ragazzo quando ancora lavorava nella cascina di famiglia. È in zona Giambellino, cuore storico della vecchia Milano, il Giambellino del Cerutti Gino di un indimenticato Gaber. Lì servono quattrocento pasti tutte le sere, senza chiedere il biglietto d’invito a nessuno: basta entrare e ritrovare un cibo, un po’ di calore, un contatto umano. Il poco che fa molto. Il poco che fa tutto. Tutto quello che oggi porta a dire parole dovute: se n’è andato un glorioso presidente, prima di lui un uomo giusto.