Dicono che stavolta sia rimasto serio e che per cancellare la parola data un segno di penna non bastasse. Dicono che l’abbia fatto per convenienza: non lo conoscono. Dicono che l’abbia fatto perché è un santo: esagerano. Aveva i capelli neri e ora li ha bianchi. Era solo un ragazzo e adesso ha una storia tutta sua stesa al sole della città in cui è nato. Ognuno ha la propria. Qualcuno la scrive, qualcuno se la fa scrivere. Ranieri ha sempre preferito la prima ipotesi. La Nazionale resta una pagina non scritta, una partita vista dagli spalti dell’Olimpico, nel 1965, a 14 anni: «Su quel campo un giorno mi piacerebbe giocare».
La Nazionale è una maglietta ripiegata sul letto di un hotel davanti al mare quando hai ventitré anni e sei stato appena congedato dal posto in cui sognavi di stare per tutta la vita. Prima c’era Scopigno: «Se ho visto Niccolai in mondovisione, non mi posso spaventare per l’esordio di Ranieri in Serie A». Poi è arrivato il Barone. Non è ancora diventato Nils, il padre della patria, con i capelli radi, tra il biondo e il giallo, portato in trionfo un decennio più tardi in una domenica genovese. È un cinquantenne che ti dice la verità: «Se vuoi restare resta, ma il posto non posso garantirtelo».
Allora potresti andare ad Arezzo, ma ti hanno appena spedito a Catanzaro, a seicento chilometri da casa e per tornare c’è solo un volo dell’Itavia che parte da Crotone la domenica sera. Sembra l’inferno e sarà il paradiso: amori, amici, figli. Ma ancora non lo sai. La Nazionale è una chiamata, una sola, in maglia azzurra. Rappresentativa di Serie B contro le Leghe della Scozia: «I convocati dovranno trovarsi entro le ore 18 di venerdì 27 dicembre 1974 all’Hotel Alcione di Francavilla». Meno di cento chilometri da Castel Di Sangro, dove Gabriele Gravina, oggi presidente Federale, a metà dei ’90 issò i baffoni di Osvaldo Jaconi e la bandiera della squadra locale, seimila abitanti, a un passo dal cielo. Dalla seconda categoria alle vittorie con Torino e Genoa.
Era un calcio di provincia, l’ambito in cui prima di iniziare a parlare inglese, con tempi, modalità e scelte personali che più diverse non avrebbero potuto, Gravina e Ranieri avevano trascorso tempo e speso energie. Sarebbe stata una conversazione possibile, tra vecchi conoscenti, al tavolo di un bar. La memoria. Il passato. È diventato un pasticciaccio internazionale, un burrone sul futuro: balla il terzo Mondiale consecutivo, troppo tardi, non è più possibile. Claudio Ranieri non ha detto no: non si è rimangiato la parola data. Ha semplicemente chiuso la borsa, sospeso i rilanci che lo inseguono da 73 anni, fatto tacere il “domani poi vediamo”. Tutti lo avrebbero voluto lì e a una parte di lui sarebbe piaciuto moltissimo. Non solo perché degli screanzati, anni fa, lo avevano maltrattato in Grecia. O perché arrivare in America sarebbe stato il film nel film, la fantascienza, il finale perfetto o perché, ancora, nell’82, in strada, a festeggiare, Claudio si era sentito felice. Ranieri non ha più bisogno di rivincite. Ha dimostrato tutto e c’è un periodo per ogni cosa.
Noi, egoisti, lo avremmo voluto incatenare: «Dai Claudio, i nipoti crescono lo stesso, fai l’ultimo giro d’onore». Come avremmo voluto incatenare Baggio, Totti, Signori, Jimmy Connors e Dino Zoff. Come abbiamo incatenato Sergio Mattarella. Tutti criticati, prima, con mirabile lungimiranza: «Vecchi, superati, perdenti». Tutti re, deificati, incensati, blanditi nell’ultimo metro. Siamo ingiusti, ci svegliamo tardi. Peccato, certo. Però, che lezione. Niente doppio stipendio, niente doppio incarico, niente polemiche: “ha convocato quello, ha chiamato quell’altro”, niente accumulazioni più o meno debite. Avremmo chiuso tutti e due gli occhi e ce li ha aperti il figlio di Mario e Renata, attività di famiglia al numero quarantuno di Via Luca della Robbia, Testaccio.
Ha fatto una cosa generosa, Ranieri. Ha detto che il re è nudo, che non c’è più tempo, neanche per quelli come lui. Ha ringraziato per l’onore e lasciato sospesa una domanda nel garbo del non detto: «Se vi rivolgete a un signore del ’51 che ha detto ripetutamente basta, se non esiste alternativa, la situazione deve essere molto grave». Ranieri non è mai stato un uomo per tutte le stagioni. Ha detto mi godo la famiglia ed è arrivata la Roma. Ha detto chiudo per sempre e da dietro un fiordo è spuntata la nazionale. Avrebbe probabilmente deviato il destino del Titanic, ma ha scelto di lasciare il timone e di guidare il proprio. Si può nuotare in un solo mare. Si può sognare un solo sogno alla volta. Si può essere sé stessi solo se non si finge e non è quasi mai soltanto una questione di anagrafe o di prospettiva. Quante volte ci si può ritirare? Qual è la sottile linea rossa che separa l’auspicabile dal ridicolo? A volte, per far scoprire che non sei indispensabile devi provare a suggerire che il bisogno di avere te è un falso problema che ne nasconde molti altri.
Arrivato alla curva della vita in cui neanche ti chiedono più il documento d’identità, il signor Ranieri ha lasciato la valigia nell’angolo come quando finite le consegne, da ragazzo, accumulava le diecimila lire per comprarsi la Gilera 124. Claudio, l’ultimo di quattro figli: «Il più fortunato, il primo che può pensare veramente allo svago senza sentirsi in colpa» si è meritato il suo sedile. Può tornare a guardare più che a vedere, a esplorare un giardino diverso, a fare una cosa nuova perché alla fine, niente fa invecchiare più dell’abitudine. Buono, dicevano. Un buono accontenta tutti, Ranieri se ne è ben guardato. Va a Lamezia Terme, è la prima panchina della sua vita, in Interregionale. Una domenica a Solofra, l’altra ad Acerra. Lui fa giocare i ragazzi, crea appartenenza, parla di zona quando criticare la marcatura a uomo equivale a bestemmiare in chiesa, la squadra parte fortissimo. Poi i rapporti si guastano. Si avvicinano i procuratori, gli interessi dei singoli, un indizio di avidità. Ranieri annusa l’aria e dopo undici settimane va da Giovanbattista Ventura, il presidente e chiude la porta. A Madrid, quando disarcionano Jesus Gil, gli sequestrano i conti e al posto del presidente trova un curatore fallimentare: «Se non vince con l’Oviedo sono costretto ad allontarla» Ranieri, spazza la palla senza equivoci. La manda lontana, molto più in là dello stadio: «Non si è mai visto un giudice che esonera un tecnico, la facilito, me ne vado io». La casistica è sconfinata perché la strada è stata lunghissima: «Ho sempre preteso una sola cosa: poter sviluppare le mie idee. Quando non è stato possibile ho salutato».
Dovunque è andato, Ranieri ha cercato un equilibrio che gli permettesse di affrontare il supplizio dello specchio: l’unico risultato mai in bilico, la partita che non si è mai permesso di perdere: «È una questione di equilibrio. Io non sono troppo e non sono troppo comprensivo. Non sono né buono, né comprensivo in verità, sono comprensivo fino al limite che considero lecito. Ho il mio punto di rottura. La mia soglia di sopportazione. Quando le cose non vanno come devono andare a mollare la compagnia impiego un secondo». Ranieri ha gli stessi amici da mezzo secolo. Uno dei più cari, Giorgio Pellizzaro, il portiere di sinistra che andava a vedere le udienze sul processo di Piazza Fontana e discuteva di politica con Nicola Ceravolo, il suo presidente al Catanzaro, una specie di secondo padre, divertendosi a provocarlo: «Pellizzaro, ma che cazzo dice? Pensi a giocare», non c’è più. Con gli altri, la banda felice dei Vichi, degli Spelta e dei Palanca, c’è un patto di ghisa. Alla paglia Ranieri ha sempre anteposto il cemento. La prima brucia, il secondo resiste. Resiste il suo amore per Rosanna, figlia di Giulio, un corrispondente di questo giornale, incontrata a Catanzaro grazie a Fausto Silipo: «Mi raccomando, comportati bene». Resiste quello per Claudia, sua figlia, nata a neanche due giorni da una partita con l’Udinese in cui Ranieri, da capitano, fa partire l’azione del primo gol e poi vola in ospedale per esultare veramente. Resiste quello per le stagioni di Catania o di Palermo, quelle in cui lo allenava Gianni Di Marzio e Claudio faceva il sindacalista, discuteva con Massimino: «Non era un uomo buono, ma buonissimo» e giocava con Domenico La Brocca da Asmara, detto Fedayn, uno scudetto con la Lazio senza apparire per un solo minuto e una certa allergia, come Ranieri, alle corsie preferenziali: «Se entravo in un bar e non mi facevano pagare in quel bar non tornavo. Perché il mio vicino per comprare un arancino doveva mettere mani al portafogli e io devo uscire come un ladro dopo aver mangiato e bevuto?». Resiste, neanche a dirlo, il suo amore per lo spazio fisico riconquistato dopo tanto peregrinare. Se non sei nato a Roma, in fondo, che ne sai? La prima volta che Ranieri mise piede in campo con la prima squadra all’Olimpico si giocava un’amichevole contro una formazione russa di seconda divisione. Oggi quella squadra è uzbeka. Era il 1972. Sono passati cinquantatré anni. È cambiata ogni cosa, ma certi muri e certi sentimenti non crollano mai. C’era il cinema Clemson e l’oratorio: «Bisognava andare a messa altrimenti non ti facevano giocare». C’erano la maglia viola dei ragazzi del San Saba e gli schiaffoni di padre Zanatta. C’era Alvaro Marchini che era amico di Togliatti e il mago Herrera, stretto nella Mini Minor, scortato dai carabinieri. C’era un clima, il vento che diventa cattivo in un istante, il dna di chi accetta le regole del gioco. Quello di Claudio.
Si parte, si soffre, non ci si lamenta. C’erano i tappi di birra da lanciare lontano e c’erano quelli che oltre ai calci, volevano tirare i pugni. Gli si avvicinò minaccioso un ragazzone. Gli mise un braccio sul collo. Claudio Ranieri usava già il vogatore. Era robusto, ma preferiva allenare il cervello. Spostò la mano dell’altro e calmissimo fece uno di quei numeri da padre laico che tante altre volte, con la tuta e il fischietto, rimise in scena negli anni a venire: «Ma che fai? Ma non vedi quanto è stupida questa cosa?». Non sempre il raziocinio è andato d’accordo con la rabbia giovane. Ci sono stati errori, insensatezze, divertimento, alterchi, delusioni, fissazioni. Claudio che con Aldo Cantarutti, a fine allenamento appoggia una bottiglia d’acqua sul costato convinto che la pratica confini con la taumaturgia. Claudio che al Tupparello di Acireale, quando al Cibali di clamoroso c’è una ristrutturazione infinita, trova le pecore in campo. Claudio che lo chiamavano Luigione e a Palermo, sulle scale del residence, aveva le pareti viola. La scaramanzia non è che una scusa per i deboli. Debole, Ranieri, non lo hanno mai fatto sentire. Lo è stato, certamente, anche a Roma, ma un conto è flettersi, altro è piegarsi. Il debole fissa un prezzo, chi è assaltato non si arrende. Ai suoi giocatori, trascinati a Roccaporena tra un inchino devoto a Santa Rita e un allenamento sullo sterrato, capitava. Gente stravolta, conati, fatica e noia, la migliore alchimia per un ammutinamento perché, come ricordava Gianluca Festa, aggregato al ciclo virtuoso del primo Cagliari di Ranieri: «Il calciatore è un bastardo. Legge tutto, ogni minimo particolare e se si accorge delle incongruenze e dei favoritismi, te la fa pagare». Con Ranieri non ci provò nessuno: «Era il nostro leader carismatico, gli credevamo, non dubitavamo e per lui ci saremmo buttati nel fuoco». Essere Ranieri, avere una famiglia e averne tante altre, non derogare mai ai principi, indossare un solo abito, un certo modo di non sembrare, un’identità sola, deve essere stato leggero ma più probabilmente faticosissimo. Significa concedersi poco. Significa non tralignare e non sfiorare la terza persona parlando del proprio lavoro. Significa pensare al noi e non all’io. Significa tante cose lievi o estenuanti. Non lo scopriremo e non lo sapremo mai da lui. Possiamo ascoltare solo le voci di chi ha percorso con Claudio una parte del sentiero. Di chi dopo il campo, dopo le partite, dopo tutto, si ritrovava attorno alle tavole ampie per i piaceri della vita: «Durante le cene Claudio si fermava a parlare con noi giocatori e appoggiava le mani sulle spalle dell’interlocutore in segno di affetto. Lo guardavo e pensavo: “Speriamo le appoggi su di me, così capisco che mi stima e mi vuole bene”». È capitato lo stesso anche a noi dimenticando per un bene superiore, per una soluzione ovvia o per lavarci la coscienza, fede, maglie e schieramenti. È stato inutile, ma lo abbiamo fatto volentieri. Avremmo voluto prolungare la stretta e decidere al suo posto, ma gli avremmo mancato di rispetto. Al suo posto, in 73 anni, non ha mai deciso nessuno.