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Vlahovic, Zidane e Nedved danno fiducia

TORINO – Sono poche, e sempre ammesso che esistano, le società che hanno la celeberrima asticella fissata più in alto rispetto a quella della Juventus. Per questo scoprirsi da subito novelli Fosbury, in bianconero, non è scontato. Neanche se il proprio dna è quello dei fuoriclasse. Per informazioni chiedere a un certo Zinedine Zidane, sbarcato a Torino nell’estate del 1996 con le stimmate della luminosa stella e, per alcuni mesi, divenuto lampadina a intermittenza. Spaesato, forse spompato, certamente gravato da una pressione che non aveva mai avvertito così nitida al Cannes o al Bordeaux. «Dopo quattro mesi venne da me e mi disse che, se fosse stata mia intenzione cederlo a causa del suo rendimento, lo avrebbe capito», racconterà anni dopo Marcello Lippi.

Juve, Zidane e la svolta Inter

Spalleggiato da un allora compagno di squadra di Zizou come Michele Padovano: «Si sentiva fuori contesto, all’inizio non osava neanche battere i calci di punizione: delegava a me il compito». Tra gli aneddoti svelati successivamente dal Pallone d’Oro del 1998 troveranno posto anche gli allenamenti di Ventrone, massacranti, e le difficoltà sotto l’aspetto tattico, palesate nelle prime settimane. E spazzate via una magica notte di fine ottobre al Delle Alpi, di fronte all’Inter, quando Zidane finalmente incanta, segnando una rete da cineteca, e si prende la scena. Anche i più scettici sono costretti a ricredersi, mentre il transalpino getta le basi per diventare uno dei pupilli dell’Avvocato Agnelli. E inizia a ricamare una stagione da sogno con Scudetto, Coppa Intercontinentale e Supercoppa Europea, macchiata solo dalla finale di Champions persa di fronte al Borussia Dortmund

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