Sappiamo tutti, non come andrà a finire, ma come sta andando, e pazienza se dovesse finire. L’Antipatico sta facendo strage di cuori e non sembra la favola di Cappuccetto Rosso. Altro che cotta di stagione. Detto tra noi: siamo alle porte del miracolo, se non del cielo! La Roma oggi è prima lassù, sgambettando là davanti con uno struggente mosquito, il tenero Baldanzi, e una non meno struggente lastra di marmo, il non meno tenero Dovbyk. Due inoffensivi, per quanto chiamati a offendere, per gentilezza d’animo prima ancora che per limiti tecnici.
Cioè, vuoi dire che Gasperini alla Roma sta esagerando, più di quanto abbia esagerato a Bergamo? Beh, già che te lo chiedi vuol dire tanto. Oggi è così, e siccome conta solo l’oggi, qualcuno, centinaia di migliaia, sono autorizzati a esultare (e sognare, chiosa Gasp). Preso atto dello scudetto già vinto, in attesa di quello eventuale onirico, la domanda è un’altra: stiamo forse scoprendo un Gasperini che non sapevamo? Una diversa accezione del Gasp più che mai esclamativo? Io dico di sì e ci provo a dirlo. Il suo segreto.
Ogni uomo ha un segreto inconfessabile. Un segreto che nasconde anche a sé stesso. Perché troppo disturbante o perché troppo faticoso da decifrare. Negli allenatori di calcio il concetto è ancora più vero. Nella maggioranza, miracolati normodotati che si coricano la notte ringraziando Gesù Bambino o l’Emiro d’Arabia, a volte entrambi, e pizzicandosi a sangue per convincersi che è tutto vero. «Sono davvero io costui che imbarca ogni mese bonifici da paura per farneticare teorie astruse e strepitare amenità motivazionali a ragazzini più ricchi di me?». I più intelligenti e onesti di loro sanno bene che la loro fortuna dipende solo in modesta percentuale da se stessi. I buoni calciatori, sono loro che ti fanno vincere. Tutti gli altri maghi da panchina convivono (bene) con il loro (modesto) senso di colpa, confessano la loro inadeguatezza dando fuori di matto una volta a settimana, gesticolando come ossessi, scaraventando giacche e cappotti, meglio se a favore di telecamere.
Le eccezioni confermano la regola. Sono i Carismatici di diverse matrici. Gente che si farebbe probabilmente notare anche senza un pallone tra i piedi. Il più semplice da raccontare è Jose Mourinho, il suo Ego lo spiega e lo esaurisce, lo esalta o lo affonda. Pep Guardiola è in fondo del suo genere. Un narciso super intelligente. Meno sfrontato, trovando probabilmente inelegante l’esagerare con la prima persona. Antonio Conte, lui sì molto estremo. Un figlio del Salento, etnicamente e storicamente votato al furore («Io non accompagno i morti» è roba forte, eccesso puro). Luciano Spalletti è un bipolare quasi impossibile da maneggiare, ti affascina o ti deprime. Carlo Ancelotti è speciale. La sua semplicità è forgiata nel tungsteno, la sua bonomia ha qualcosa di micidiale, nel senso della determinazione. Un carro armato di marzapane.
E poi c’è Gian Piero Gasperini. Meglio dire, Gasperini a Roma. Lui, forse, è il più interessante da raccontare. Un grandissimo allenatore. Senza un ego smodato, non perseguitato da un’intelligenza imbarazzante, esente da patologie manifeste, non interessato a mostrarsi benevolo per nascondere la sua natura di ferro. Lui è quello che è. E sa essere quello che è senza mai confondersi, senza perdere mai la bussola o la battuta, senza mai sprecare un aggettivo, un gemito o un sorriso. Essenziale e implacabile. Dice quello che deve dire, non una parola di più. Come la colt di Gary Cooper in Mezzogiorno di fuoco o quella di Harrison Ford alias Indiana Jones. Niente spari superflui, ma solo quelli che uccidono. Nessuna concessione alla platea. Lo spettacolo non serve se non è crudele. Un eroe classico da vecchia frontiera, antipatico quando è necessario esserlo, simpatico solo se non nuoce all’impresa. Se apre la porta di un saloon sai che succederà sempre qualcosa.
Uno shock salutare, uno come Gasp, nella città che da Nerone a Petrolini reclama lo show piacione, il circo e l’applauso. Lui se ne frega delle moine. Lui è applicato a tempo pieno. Lui studia il suo calcio e i suoi calciatori come studia le sue vigne, senza sentimenti superflui. Ma il palato è fine, la dedizione totale. Il non essere fuorviato da esuberanze di ego, manie, simpatie e antipatie, lo aiuta a cogliere il massimo da quello che ha. E a prendere il meglio da quello che non ha. Tantissime le imprese che lo raccontano tra Genoa, Atalanta e ora Roma. Ne scelgo una, Sculli al Genoa. Lo cancella come modesto attaccante e lo reinventa come fondamentale stallone da portare in tutte le scorribande del suo calcio da trincea, dove vivi o muori. Ma sapendo che non vai mai allo scontro davvero da solo. Intorno a te, la solidarietà è assoluta. Se tu vai a vivere o morire a sinistra, c’è qualcosa che vive o muore a destra, dove lo sguardo non arriva, perché non ha bisogno di arrivare.
Da lui non arrivano mai calciatori conclamati. Troppo facile. Arrivano, piuttosto, calciatori che, senza di lui, non lo sarebbero mai stati. Un esempio tra i tanti? Josip Ilicic all’Atalanta. Un talento lunatico e irritante che diventa il calciatore più decisivo del calcio italiano. Devi solo seguirlo, il Gasp. Se sopravvivi, lui ti fa vivere. Da re. E scoprire che il pallone può diventare pazza gioia. Soulé, Pellegrini, Celik, Wesley, N’Dicka e compagni lo stanno scoprendo, Cristante e Mancini lo stanno riscoprendo. L’andare ebbri negli spazi, ma lucidi nell’essenza. Sapere sempre quello che devi fare.
Un Gasperini che non ha più nemmeno bisogno del tempo. Uno come lui, si diceva, gli devi dare tempo, quello che gli serve per plasmare, se non vuoi prenderne solo il peggio, cioè il caos. La sua Roma (merito anche del fondamentale passaggio di Ranieri) ha conosciuto giorni di mediocrità, ma mai un giorno di caos. E ora sembra libera anche dalla mediocrità.

