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Pellegrino Matarazzo, l’allenatore laureato in matematica che fa impazzire gli Usa: “Roma, la filosofia di Gasperini…”

Dalle strade di Paterson, New Jersey, alla panchina in , passando per una profonda connessione con l’Italia che non si è affievolita. È la storia di un allenatore che ha saputo unire esperienze, culture e competenze diverse. Nato negli Stati Uniti da famiglia italiana, cresciuto a pane e , Pellegrini Matarazzo è laureato in matematica applicata alla prestigiosa Columbia University e ha saputo trasformare un amore giovanile per il calcio in una carriera costruita con visione, metodo e passione. Il suo stile da allenatore è il frutto di una formazione strutturata e internazionale, ma allo stesso tempo emotiva e radicata nei valori del calcio tradizionale. Conosce le dinamiche del calcio tedesco, ma guarda con interesse al campionato italiano, dove ritrova le sue radici culturali e calcistiche. In questa intervista, ci apre le porte della sua storia: dai primi ricordi legati al trionfo dell’Italia nel 1982 alle domeniche mattine passate a vedere “90º Minuto” con il padre, dal legame con la sua Avellino al sogno di allenare in Serie A. Racconta la sua visione di gioco, le sue influenze (da Guardiola a Gasperini) e il ruolo della formazione accademica nel suo modo di intendere calcio. Parla di futuro, di progetti, di scelte. E di un Mondiale per Club negli Stati Uniti che può rappresentare un’opportunità di crescita per il calcio globale. Una conversazione autentica, con un allenatore che, pur essendo cresciuto oltreoceano, non ha mai smesso di sentirsi parte dell’Italia calcistica. 

Lei è nato negli Stati Uniti da famiglia italiana. Quanto hanno influenzato le sue radici italiane nella sua carriera di allenatore? Qual é il suo rapporto con il nostro Paese?

Ho imparato la passione per il calcio grazie alle mie radici. Ogni domenica mattina guardavo la Serie A con mio padre e i miei fratelli. Era l’epoca d’oro del campionato italiano, quella di Maradona al Napoli, di Roberto Baggio, di Walter Zenga e del invincibile di Sacchi con la leggendaria connessione olandese. Ricordo anche con affetto quando la mia città d’origine, Avellino, era in Serie A: momenti che seguivamo con emozione attraverso la trasmissione “90° Minuto”. Senza questa passione non avrei mai seguito il sogno di diventare un calciatore professionista, né tanto meno un allenatore. Il mio legame con l’Italia è profondo. Dopo l’università ho trascorso molti mesi a Ospedaletto d’Alpinolo, in provincia di Avellino, con i miei nonni, sentendomi parte di quella terra. Mi sono anche sposato con mia moglie nel santuario di Montevergine, proprio lì. Continuo a tornare in Italia spesso: mia moglie e mio figlio hanno visitato quasi tutte le regioni italiane con me. Proprio per questo ho deciso di ristrutturare la casa di famiglia, dove crescono le nocciole, affinché tutta la nostra famiglia possa riunirsi lì. Un giorno vorrei tornare a vivere in quella casa, su quella terra da cui è iniziata la mia storia. I miei primi ricordi calcistici risalgono al Mondiale vinto dall’Italia nell’82: avevo quattro anni, e mio padre dipinse la sua Jeep Wrangler di verde, bianco e rosso, guidando una parata di italiani per le strade di Paterson, New Jersey. Da lì è cominciato tutto”.

In cosa è laureato? Matematica? Ci racconta il suo percorso di studi?

“Sì, ho studiato per quattro anni alla Columbia University di New York e ho conseguito la laurea in matematica applicata. È stata un’esperienza incredibile che ha davvero ampliato i miei orizzonti”.

Lei ha molta esperienza come allenatore nella Bundesliga. Cosa può imparare il calcio italiano da quello tedesco?

La Bundesliga rappresenta un modello di calcio ben equilibrato. Se da un lato la Serie A presenta punti di forza evidenti sul piano tecnico e tattico, il calcio tedesco pone un’enfasi relativamente equilibrata sugli aspetti tecnici, tattici, fisici e mentali del gioco. Inoltre, mentre la Serie A è un campionato spesso costruito sull’idea di neutralizzare l’avversario, l’approccio tedesco è più proattivo e orientato all’attacco, con un focus maggiore sui propri punti di forza e meno timore, il che porta a uno spettacolo sportivo più aperto e attraente”.

Qual è la sua filosofia di gioco? Che tipo di calcio ama proporre?

“Il calcio moderno è diventato tatticamente molto ricco, con numerose varianti su come le squadre interpretano il gioco. Per questo motivo do grande valore all’equilibrio tra flessibilità tattica e orientamento alla soluzione, senza mai perdere di vista la necessità di costruire un’identità chiara attraverso un modello di gioco definito e valori condivisi. Mi considero una persona molto adattabile, sia alle caratteristiche della rosa che al contesto del club. Ad esempio, il calcio che abbiamo giocato a Stoccarda era, per molti aspetti, diverso da quello praticato a Hoffenheim, ma in entrambi i casi siamo riusciti a raggiungere i nostri obiettivi. Il mio approccio è supportato da un modo di pensare strutturato e analitico, frutto della mia formazione. Detto questo, ho una mentalità offensiva e propositiva. Mi piace proporre un calcio completo, in cui i giocatori sappiano sempre cosa fare, anche nella gestione del ritmo e dei momenti chiave della partita“.

Le piacerebbe allenare in Serie A? Quali aspetti del calcio italiano la affascinano di più?

“Ho una visione chiara e obiettivi ambiziosi per la mia carriera da allenatore. Molti allenatori sognano di guidare una grande squadra in uno dei principali campionati europei e di competere in Champions League – e io non faccio eccezione, soprattutto avendo già maturato esperienza in Bundesliga e in Europa League. Posso certamente immaginare di lavorare in Serie A. Mi affascina la profonda attenzione tattica che caratterizza il calcio italiano. È un campionato in cui l’organizzazione e l’intelligenza tattica sono fondamentali, e questo rappresenta una sfida stimolante per qualsiasi allenatore. Tuttavia, al di là del campionato, il mio obiettivo è trovare l’ambiente giusto, le persone giuste e lavorare con qualità. Il resto verrà da sé, come è giusto che sia”.

Che tipo di progetto la interessa: salvezza, crescita di un club, qualificazione europea?

“Fortunatamente, ho maturato esperienza e ho avuto successo in ognuno di questi scenari – che si tratti di lottare per la salvezza, contribuire alla crescita di un club o conquistare la qualificazione alle competizioni europee. Il successo in ciascuna di queste situazioni può essere estremamente gratificante, ma richiede anche una mentalità e delle competenze specifiche. Al momento sono aperto a tutti i tipi di progetto. Ciò che conta di più per me è la chiarezza della visione e la qualità della collaborazione all’interno del club”.

Ha già avuto contatti con club italiani in passato?

“Sì, in passato c’è stato interesse da parte di club di Serie A come Udinese, e Verona. Anche se il momento non era quello giusto, ho apprezzato molto l’interesse e le conversazioni positive che ci sono state”.

Quali allenatori l’hanno ispirata maggiormente nella sua formazione? È vero che si ispira a Sarri e Gasperini, allenatori di Lazio e Roma?

“Molti allenatori sono stati per me una fonte di ispirazione nel corso degli anni. Pep Guardiola ha avuto un impatto enorme sul calcio tedesco, e ho avuto l’opportunità di osservare da vicino durante la sua esperienza al Bayern Monaco. Lavorare al fianco di Julian Nagelsmann per in Bundesliga e in Champions League è stato per me un’influenza positiva sotto molti aspetti. Il lavoro di Sarri a Napoli, con il suo approccio verticale, ad alta velocità e basato sul possesso, è stato una fonte di ispirazione e uno stimolo a pensare fuori dagli schemi. E naturalmente, il successo continuo di Gasperini con l’Atalanta, costruito su un’identità chiara di calcio offensivo, ad alta intensità e velocità, è davvero notevole. Credo che sia la sua chiarezza di visione e la disciplina tattica a permettere ai suoi giocatori di raggiungere i livelli fisici e mentali necessari per attuare il suo stile di gioco. Ma alla fine, ognuno di noi è attratto da una filosofia che esprime ciò che siamo nel profondo. Più andiamo a fondo, più quella filosofia diventa autentica — e maggiori sono le possibilità di successo reale, persino straordinario”.

Cosa pensa del Mondiale per club negli USA?

“Se si riesce a trovare uno spazio adeguato all’interno di un calendario già intenso e sovraccarico, se i criteri di qualificazione sono chiari e basati esclusivamente sul merito sportivo, e se tutte le federazioni continentali vengono coinvolte in modo appropriato, allora può diventare una competizione molto interessante. Sarebbe un’opportunità unica per far confrontare diverse culture calcistiche su un palcoscenico globale- qualcosa che può essere allo stesso tempo stimolante e prezioso per lo sviluppo del calcio a livello mondiale”.



Fonte: http://www.corrieredellosport.it/rss/calcio/calcio-estero


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