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    Silva, talento da pesare: esame verità con Baroni

    TORINO – Marco Baroni coi centrocampisti sa lavorare molto bene. Lo storico parla chiaro, soprattutto con i giocatori dai piedi raffinati. Nel suo vissuto da allenatore in Serie A non mancano gli esempi eccellenti. Il primo riferimento, naturalmente, è per Morten Hjulmand: danese classe ’99, portato a Lecce dal geniale Pantaleo Corvino, si afferma ad altissimi livelli prima in Serie B e poi nella massima serie. Fin LEGGI TUTTO

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    Milan-Como a Perth, Supercoppa In Arabia e dei tifosi italiani chissenefrega  

    La scusa è risibile. Siccome il 6 febbraio, San Siro sarà teatro dell’inaugurazione dei Giochi Olimpici Invernali e in Europa non si trova uno stadio libero, manco pagandolo a peso d’oro (bum!), la partita Milan-Como, valida per la ventiquattresima giornata della prossima Serie A, si giocherà a Perth, Australia. In fondo, dista soltanto 13.670 km da Milano e, per raggiungerla, sec LEGGI TUTTO

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    Ranieri, un uomo che ha detto sì a sé stesso. Senza mancare di rispetto

    Dicono che stavolta sia rimasto serio e che per cancellare la parola data un segno di penna non bastasse. Dicono che l’abbia fatto per convenienza: non lo conoscono. Dicono che l’abbia fatto perché è un santo: esagerano. Aveva i capelli neri e ora li ha bianchi. Era solo un ragazzo e adesso ha una storia tutta sua stesa al sole della città in cui è nato. Ognuno ha la propria. Qualcuno la scrive, qualcuno se la fa scrivere. Ranieri ha sempre preferito la prima ipotesi. La Nazionale resta una pagina non scritta, una partita vista dagli spalti dell’Olimpico, nel 1965, a 14 anni: «Su quel campo un giorno mi piacerebbe giocare».  

    La Nazionale è una maglietta ripiegata sul letto di un hotel davanti al mare quando hai ventitré anni e sei stato appena congedato dal posto in cui sognavi di stare per tutta la vita. Prima c’era Scopigno: «Se ho visto Niccolai in mondovisione, non mi posso spaventare per l’esordio di Ranieri in Serie A». Poi è arrivato il Barone. Non è ancora diventato Nils, il padre della patria, con i capelli radi, tra il biondo e il giallo, portato in trionfo un decennio più tardi in una domenica genovese. È un cinquantenne che ti dice la verità: «Se vuoi restare resta, ma il posto non posso garantirtelo».  

    Allora potresti andare ad Arezzo, ma ti hanno appena spedito a Catanzaro, a seicento chilometri da casa e per tornare c’è solo un volo dell’Itavia che parte da Crotone la domenica sera. Sembra l’inferno e sarà il paradiso: amori, amici, figli. Ma ancora non lo sai. La Nazionale è una chiamata, una sola, in maglia azzurra. Rappresentativa di Serie B contro le Leghe della Scozia: «I convocati dovranno trovarsi entro le ore 18 di venerdì 27 dicembre 1974 all’Hotel Alcione di Francavilla». Meno di cento chilometri da Castel Di Sangro, dove Gabriele Gravina, oggi presidente Federale, a metà dei ’90 issò i baffoni di Osvaldo Jaconi e la bandiera della squadra locale, seimila abitanti, a un passo dal cielo. Dalla seconda categoria alle vittorie con Torino e Genoa.  

    Era un calcio di provincia, l’ambito in cui prima di iniziare a parlare inglese, con tempi, modalità e scelte personali che più diverse non avrebbero potuto, Gravina e Ranieri avevano trascorso tempo e speso energie. Sarebbe stata una conversazione possibile, tra vecchi conoscenti, al tavolo di un bar. La memoria. Il passato. È diventato un pasticciaccio internazionale, un burrone sul futuro: balla il terzo Mondiale consecutivo, troppo tardi, non è più possibile. Claudio Ranieri non ha detto no: non si è rimangiato la parola data. Ha semplicemente chiuso la borsa, sospeso i rilanci che lo inseguono da 73 anni, fatto tacere il “domani poi vediamo”. Tutti lo avrebbero voluto lì e a una parte di lui sarebbe piaciuto moltissimo. Non solo perché degli screanzati, anni fa, lo avevano maltrattato in Grecia. O perché arrivare in America sarebbe stato il film nel film, la fantascienza, il finale perfetto o perché, ancora, nell’82, in strada, a festeggiare, Claudio si era sentito felice. Ranieri non ha più bisogno di rivincite. Ha dimostrato tutto e c’è un periodo per ogni cosa.  

    Noi, egoisti, lo avremmo voluto incatenare: «Dai Claudio, i nipoti crescono lo stesso, fai l’ultimo giro d’onore». Come avremmo voluto incatenare Baggio, Totti, Signori, Jimmy Connors e Dino Zoff. Come abbiamo incatenato Sergio Mattarella. Tutti criticati, prima, con mirabile lungimiranza: «Vecchi, superati, perdenti». Tutti re, deificati, incensati, blanditi nell’ultimo metro. Siamo ingiusti, ci svegliamo tardi. Peccato, certo. Però, che lezione. Niente doppio stipendio, niente doppio incarico, niente polemiche: “ha convocato quello, ha chiamato quell’altro”, niente accumulazioni più o meno debite. Avremmo chiuso tutti e due gli occhi e ce li ha aperti il figlio di Mario e Renata, attività di famiglia al numero quarantuno di Via Luca della Robbia, Testaccio.  

    Ha fatto una cosa generosa, Ranieri. Ha detto che il re è nudo, che non c’è più tempo, neanche per quelli come lui. Ha ringraziato per l’onore e lasciato sospesa una domanda nel garbo del non detto: «Se vi rivolgete a un signore del ’51 che ha detto ripetutamente basta, se non esiste alternativa, la situazione deve essere molto grave». Ranieri non è mai stato un uomo per tutte le stagioni. Ha detto mi godo la famiglia ed è arrivata la Roma. Ha detto chiudo per sempre e da dietro un fiordo è spuntata la nazionale. Avrebbe probabilmente deviato il destino del Titanic, ma ha scelto di lasciare il timone e di guidare il proprio. Si può nuotare in un solo mare. Si può sognare un solo sogno alla volta. Si può essere sé stessi solo se non si finge e non è quasi mai soltanto una questione di anagrafe o di prospettiva. Quante volte ci si può ritirare? Qual è la sottile linea rossa che separa l’auspicabile dal ridicolo? A volte, per far scoprire che non sei indispensabile devi provare a suggerire che il bisogno di avere te è un falso problema che ne nasconde molti altri.  

    Arrivato alla curva della vita in cui neanche ti chiedono più il documento d’identità, il signor Ranieri ha lasciato la valigia nell’angolo come quando finite le consegne, da ragazzo, accumulava le diecimila lire per comprarsi la Gilera 124. Claudio, l’ultimo di quattro figli: «Il più fortunato, il primo che può pensare veramente allo svago senza sentirsi in colpa» si è meritato il suo sedile. Può tornare a guardare più che a vedere, a esplorare un giardino diverso, a fare una cosa nuova perché alla fine, niente fa invecchiare più dell’abitudine. Buono, dicevano. Un buono accontenta tutti, Ranieri se ne è ben guardato. Va a Lamezia Terme, è la prima panchina della sua vita, in Interregionale. Una domenica a Solofra, l’altra ad Acerra. Lui fa giocare i ragazzi, crea appartenenza, parla di zona quando criticare la marcatura a uomo equivale a bestemmiare in chiesa, la squadra parte fortissimo. Poi i rapporti si guastano. Si avvicinano i procuratori, gli interessi dei singoli, un indizio di avidità. Ranieri annusa l’aria e dopo undici settimane va da Giovanbattista Ventura, il presidente e chiude la porta. A Madrid, quando disarcionano Jesus Gil, gli sequestrano i conti e al posto del presidente trova un curatore fallimentare: «Se non vince con l’Oviedo sono costretto ad allontarla» Ranieri, spazza la palla senza equivoci. La manda lontana, molto più in là dello stadio: «Non si è mai visto un giudice che esonera un tecnico, la facilito, me ne vado io». La casistica è sconfinata perché la strada è stata lunghissima: «Ho sempre preteso una sola cosa: poter sviluppare le mie idee. Quando non è stato possibile ho salutato».  

    Dovunque è andato, Ranieri ha cercato un equilibrio che gli permettesse di affrontare il supplizio dello specchio: l’unico risultato mai in bilico, la partita che non si è mai permesso di perdere: «È una questione di equilibrio. Io non sono troppo e non sono troppo comprensivo. Non sono né buono, né comprensivo in verità, sono comprensivo fino al limite che considero lecito. Ho il mio punto di rottura. La mia soglia di sopportazione. Quando le cose non vanno come devono andare a mollare la compagnia impiego un secondo». Ranieri ha gli stessi amici da mezzo secolo. Uno dei più cari, Giorgio Pellizzaro, il portiere di sinistra che andava a vedere le udienze sul processo di Piazza Fontana e discuteva di politica con Nicola Ceravolo, il suo presidente al Catanzaro, una specie di secondo padre, divertendosi a provocarlo: «Pellizzaro, ma che cazzo dice? Pensi a giocare», non c’è più. Con gli altri, la banda felice dei Vichi, degli Spelta e dei Palanca, c’è un patto di ghisa. Alla paglia Ranieri ha sempre anteposto il cemento. La prima brucia, il secondo resiste. Resiste il suo amore per Rosanna, figlia di Giulio, un corrispondente di questo giornale, incontrata a Catanzaro grazie a Fausto Silipo: «Mi raccomando, comportati bene». Resiste quello per Claudia, sua figlia, nata a neanche due giorni da una partita con l’Udinese in cui Ranieri, da capitano, fa partire l’azione del primo gol e poi vola in ospedale per esultare veramente. Resiste quello per le stagioni di Catania o di Palermo, quelle in cui lo allenava Gianni Di Marzio e Claudio faceva il sindacalista, discuteva con Massimino: «Non era un uomo buono, ma buonissimo» e giocava con Domenico La Brocca da Asmara, detto Fedayn, uno scudetto con la Lazio senza apparire per un solo minuto e una certa allergia, come Ranieri, alle corsie preferenziali: «Se entravo in un bar e non mi facevano pagare in quel bar non tornavo. Perché il mio vicino per comprare un arancino doveva mettere mani al portafogli e io devo uscire come un ladro dopo aver mangiato e bevuto?». Resiste, neanche a dirlo, il suo amore per lo spazio fisico riconquistato dopo tanto peregrinare. Se non sei nato a Roma, in fondo, che ne sai? La prima volta che Ranieri mise piede in campo con la prima squadra all’Olimpico si giocava un’amichevole contro una formazione russa di seconda divisione. Oggi quella squadra è uzbeka. Era il 1972. Sono passati cinquantatré anni. È cambiata ogni cosa, ma certi muri e certi sentimenti non crollano mai. C’era il cinema Clemson e l’oratorio: «Bisognava andare a messa altrimenti non ti facevano giocare». C’erano la maglia viola dei ragazzi del San Saba e gli schiaffoni di padre Zanatta. C’era Alvaro Marchini che era amico di Togliatti e il mago Herrera, stretto nella Mini Minor, scortato dai carabinieri. C’era un clima, il vento che diventa cattivo in un istante, il dna di chi accetta le regole del gioco. Quello di Claudio. 

    Si parte, si soffre, non ci si lamenta. C’erano i tappi di birra da lanciare lontano e c’erano quelli che oltre ai calci, volevano tirare i pugni. Gli si avvicinò minaccioso un ragazzone. Gli mise un braccio sul collo. Claudio Ranieri usava già il vogatore. Era robusto, ma preferiva allenare il cervello. Spostò la mano dell’altro e calmissimo fece uno di quei numeri da padre laico che tante altre volte, con la tuta e il fischietto, rimise in scena negli anni a venire: «Ma che fai? Ma non vedi quanto è stupida questa cosa?». Non sempre il raziocinio è andato d’accordo con la rabbia giovane. Ci sono stati errori, insensatezze, divertimento, alterchi, delusioni, fissazioni. Claudio che con Aldo Cantarutti, a fine allenamento appoggia una bottiglia d’acqua sul costato convinto che la pratica confini con la taumaturgia. Claudio che al Tupparello di Acireale, quando al Cibali di clamoroso c’è una ristrutturazione infinita, trova le pecore in campo. Claudio che lo chiamavano Luigione e a Palermo, sulle scale del residence, aveva le pareti viola. La scaramanzia non è che una scusa per i deboli. Debole, Ranieri, non lo hanno mai fatto sentire. Lo è stato, certamente, anche a Roma, ma un conto è flettersi, altro è piegarsi. Il debole fissa un prezzo, chi è assaltato non si arrende. Ai suoi giocatori, trascinati a Roccaporena tra un inchino devoto a Santa Rita e un allenamento sullo sterrato, capitava. Gente stravolta, conati, fatica e noia, la migliore alchimia per un ammutinamento perché, come ricordava Gianluca Festa, aggregato al ciclo virtuoso del primo Cagliari di Ranieri: «Il calciatore è un bastardo. Legge tutto, ogni minimo particolare e se si accorge delle incongruenze e dei favoritismi, te la fa pagare». Con Ranieri non ci provò nessuno: «Era il nostro leader carismatico, gli credevamo, non dubitavamo e per lui ci saremmo buttati nel fuoco». Essere Ranieri, avere una famiglia e averne tante altre, non derogare mai ai principi, indossare un solo abito, un certo modo di non sembrare, un’identità sola, deve essere stato leggero ma più probabilmente faticosissimo. Significa concedersi poco. Significa non tralignare e non sfiorare la terza persona parlando del proprio lavoro. Significa pensare al noi e non all’io. Significa tante cose lievi o estenuanti. Non lo scopriremo e non lo sapremo mai da lui. Possiamo ascoltare solo le voci di chi ha percorso con Claudio una parte del sentiero. Di chi dopo il campo, dopo le partite, dopo tutto, si ritrovava attorno alle tavole ampie per i piaceri della vita: «Durante le cene Claudio si fermava a parlare con noi giocatori e appoggiava le mani sulle spalle dell’interlocutore in segno di affetto. Lo guardavo e pensavo: “Speriamo le appoggi su di me, così capisco che mi stima e mi vuole bene”». È capitato lo stesso anche a noi dimenticando per un bene superiore, per una soluzione ovvia o per lavarci la coscienza, fede, maglie e schieramenti. È stato inutile, ma lo abbiamo fatto volentieri. Avremmo voluto prolungare la stretta e decidere al suo posto, ma gli avremmo mancato di rispetto. Al suo posto, in 73 anni, non ha mai deciso nessuno.  LEGGI TUTTO

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    Retroscena De Bruyne: il contratto e dove andrà ad abitare

    NAPOLI – L’urlo di Kevin s’è alzato lunedì a Bruxelles, dopo il gol del 4-3 contro il Galles, e poi s’è spento soltanto ieri pomeriggio. In coda a una trattativa iniziata benissimo, in grande stile, ma che a un certo punto s’è arenata in un vicolo stretto di cavilli legati all’immagine, fino a rendere snervante l’attesa di un popolo di tifosi ancora increduli. Ma Aurelio De Laurentiis lo aveva già investito e praticamente ufficiosamente vestito d’azzurro nel tripudio scudetto e così sarà: questione di ore e poi De Bruyne sarà ufficialmente un giocatore del Napoli. Meglio: un fuoriclasse del Napoli.

    De Bruyne, domani a Roma per la visite

    La prima notizia, diciamo anche quella fondamentale, è archiviata: tutto bene, tutto finalmente bene, contratti pronti e questioni sistemate. Ognuna al suo posto: dall’immagine con la nazionale allo sponsor tecnico, dalla casa di Posillipo alla gioia di una famiglia intera. Numerosa e felice. Ah, beh, resta giusto quello che ormai sembrerà poco più d’un dettaglio: le visite mediche che De Bruyne dovrebbe svolgere domani a Roma, a Villa Stuart, secondo il piano organizzativo già impostato ieri mattina dal club. Non è un’idea o una speranza come quella coltivata fino a lunedì, quando l’agenda perfetta di una giornata ideale avrebbe abbinato i test fisici di Kevin a quelli di Marianucci, ma è un progetto realistico e concreto. Imbastito insieme con i tenaci legali del giocatore belga, 34 anni d’età da brindare il 28 giugno e una classe immensa e senza tempo che fa già luccicare gli occhi degli appassionati di calcio.

    Napoli, un campione a parametro zero

    L’arrivo di De Bruyne in Serie A, dopo dieci anni da re in Premier con il City e un curriculum pieno di ori e trionfi, arricchirà di sex appeal il calcio italiano a prescindere dall’anagrafe. È un colpo che il ds Manna s’è inventato con coraggio e romanticismo e che De Laurentiis ha avallato con gli stessi principi. Per altro a zero: tre anni complessivi, stipendio importante, bonus alla firma. Cose di un altro Napoli. Scudetto, Champions, campioni. E al resto, cioè a spremere dal suo talento sconfinato anche l’ultima goccia preziosa, ci penserà Conte. Fisicamente, come ha dimostrato con la nazionale fino a lunedì, fino al gol della vittoria contro il Galles, Kevin ha ancora tanto da dire. Ma dovrà anche dare tanto: la preparazione del signor Antonio, degna del corpo dei marines, è durissima ma potrebbe garantirgli la terza giovinezza. Classe a parte, s’intende.

    De Bruyne e il feeling con Napoli

    Anche in Belgio, dopo giornate di attesa e anche di ansia, perché De Bruyne è il capitano e soprattutto un monumento nazionale, l’accordo definitivo con il Napoli è stato festeggiato. Diciamo annunciato con enfasi: era davvero notevole, la curiosità di capire in che modo e soprattutto dove avrebbe proseguito la carriera dopo l’addio al Manchester City. Il Napoli s’è fiondato, ci ha creduto, ha investito tanto e lo ha fatto sentire molto importante. Ancora e tanto. La città, un luogo che Kevin e madame Michele conoscono benissimo, ha fatto il resto: l’hanno vissuta, odorata e respirata con i coniugi Mertens, grandi amici che ritroveranno insieme con Lukaku, già collega in nazionale; e poi, beh, nel 2017 è proprio da queste parti che hanno coronato il loro amore, un matrimonio in Penisola sorrentina, a Sant’Agnello. Una favola.

    De Bruyne, domani inizia l’avventura

    Anche il Napoli, il club, è pronto a vivere una storia che potrebbe diventare favola a cominciare dal ritiro di Dimaro. Ma i momenti da incubo non sono mancati prima del lieto fine: lo scambio dei documenti è stato lungo e articolato, i nodi legati all’immagine intricati. E però, beh, alla fine Adl e Kdb si sono ritrovati, attrazione fatale in tre lettere: d’accordo su tutto, ci si vede presto. Meglio domani.  LEGGI TUTTO

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    Perciun: “Toro, portami in ritiro. E poi vedremo”

    INVIATO A REGGIO EMILIA – Ci sono momenti che ti segnano per tutta la vita e Sergiu Perciun, 19 anni compiuti ad aprile, mai dimenticherà quando è entrato in campo contro l’Italia con la Moldavia. Venerdì aveva già debuttato in Nazionale maggiore in amichevole contro la Polonia, ma quella di lunedì sera è stata la sua prima gara ufficiale, sotto gli occhi di Emiliano Moretti, braccio destro di Davide Vag LEGGI TUTTO

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    Scamacca-Roma, l’amore può tornare: i primi gol a Fidene, un’infanzia difficile e il rapporto con Gasp

    Gianluca Scamacca a Roma ci tornerebbe anche stasera, anzi a dire il vero nella capitale si fa vedere spesso e volentieri. Qui ha l’amore di mamma Cristiana, quello della neo sposa Flaminia Appolloni, tanti amici e la sua squadra del cuore. E poi da qualche giorno c’è Gasperini, il tecnico che lo ha più valorizzato in carriera come dimostrano i 19 gol messi a segno due stagioni fa. Insomma fosse per lui l’affar LEGGI TUTTO

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    Comolli, prima conferenza Juve: “Tudor allenatore 25/26. Cerchiamo un ds e un dt”. Sul Moneyball…

    12:29

    Il mercato Juve e lo Scudetto

    “Vedrete la mia faccia abbastanza spesso nel corso della stagione. Sono molto aperto, vi dico la verità, ma c’è una cosa in cui non sono aperto ed è sulla finestra del mercato. Ne abbiamo discusso con allenatore, Giorgio e Maurizio: abbiamo un’idea del cambiamento della rosa, considerando l’approccio di Igor che ha una media di 2 punti che lo ha portato al quarto posto. Vediamo le percentuali raggiunte negli ultimi anni, ma se la squadra non fosse stata buona non avrebbe raggiunto quei punti. Non sono preciso nel rispondere, posso dire che sicuramente ci sono aggiustamenti ma non cambiamenti radicali e profondi”.

    12:27

    L’opinione sul calcio italiano

    “Quando sono entrato nel club mi sono posto due obiettivi: vincere e soddisfare il 100% del potenzionale, migliorando. Ma in tutti i paesi in cui sono stato mi son sempre detto che dovevo aiutare il calcio a svilupparsi nel paese in cui mi trovato. In Francia ad esempio a livello di Lega ho preso parte a diversi comitati. Cercavo di dare una mano nel prendere decisioni. Non so quanto conoscete il calcio inglese, ma per il settore giovanile c’è il programma IPPP che abbiamo creato nel 2012 e io facevo parte del comitato che lo ha creato, dando il mio contributo per migliorare il calcio inglese. Riguardava anche giocatori come Bellingham. Voglio che la Juve abbia successo, ma il secondo obiettivo è dare un contributo al calcio italiano a crescere: se la Juventus ha successo, potrà dare molto al calcio italiano. Basta vedere quanto accaduto nella storia, nel 1982 e nel 2006 coi Mondiali. La Juve ha sempre dato un contributo fondamentale al successo del calcio italiano, poter riportare questo è ciò che voglio fare. Non voglio dire cosa va bene o no, sono qui da 6-7 giorni. Se venite in Francia possiamo parlare, ma non sono qui per insegnare nulla, non ho la risposta, sarebbe un peccato se l’Italia non riuscisse a qualificarsi ai Mondiali. Però mi voglio prendere più tempo per rispondere a questa domanda: se posso dare un contributo voglio farlo, attraverso la Juventus”.

    12:22

    Identità fin dal settore giovanile e il Moneyball

    “Volevo creare una cultura, una metodologia e una filosofia. Penso che nel settore sportivo attuale l’identità sia importante, ovviamente ci occupiamo di intrattenimento, creiamo emozioni ma nelle emozioni ci sono identità, sensazioni per un club. Credo che creare identità che la comunità del club può riconoscere sia importante, e arriva attraverso vittorie, stile di gioco e metodologia. Serve tempo, ma non è impossibile. Il modello dell’Ajax non è tra i miei preferiti: possiamo trovare influenze in altre aree, culture o sport. Ma l’identità è qualcosa che voglio mettere in pratica. Io ho provato a portare nel calcio metodologie di altri sport e il Moneyball? Non so se è stato romanzato o creazione della stampa, sappiamo che si possono creare storie. Ma ho parlato prima, proviamo a rendere razionale un’industria irrazionale come il calcio. La mia frustrazione, lavorando come scout, era vedere tante cattive decisioni nel reclutamento, mi domandavo come avere un approccio più scentifico e preciso. Il principio Moneyball, che si fonda sui dati, può essere utile: comprare asset che possono essere sottovalutati al mercato, facendo valutazione dove anche il mercato viene sopravvalutato. Questa è teoria ovviamente, non vendiamo e compriamo azioni: il mercato riguarda esseri umani che hanno emozioni, e proviamo ad inserire questa metodologia che in tanti sport e in tanti casi ha funzionato. Dati e calcio stanno beni assieme, c’è chi usa dati e non lo dice perché non vuole domande. Io ne parlo perché li ho sempre usato. La mia ossessione è vincere, ma anche utilizzare al meglio i dati, migliorando ogni singolo giorno. Un modo per avere un vantaggio competitivo sugli altri club è quello dei dati, credo sia il modo migliore per avere grandi performance a livello finanziario e vincere sul campo”.

    12:14

    I dati di Comolli

    “Io lavoro con i dati da 25 anni, ho sempre pensato che proprietà, aziende e tifosi quando si rivolgono a me è perché io porti questo bagaglio di conoscenze. Se sono stato reclutato dal club che rappresento qui è per questo background di dati, e sono nelle condizioni di usare e implementare questa metodologia. Siamo pagati per regalare emozioni, dovrò garantire che i tifosi raggiungano il più alto livello di emozione, è il mio pensiero fisso tutte le mattine. Ma in quest’industria, dove servono emozioni in campo e sguli spalti, dobbiamo adottare approccio razionale. L’1 agosto del 2025 sarà il mio 33° anno nel calcio con diversi ruoli, e non mi sono mai imbattuto in un approccio più razionale rispetto a quello dei dati. Che si parli di moda, prodotti al consumo o vendere razzi per andare sulla luna, o Formula 1 o NFL: tutti analizzano dati. Useremo i dati in diverse aree, ci assisteranno nella selezione dei calciatori e ci guideranno anche nel valutare la forza della nostra squadra in A o in Europa. Ci aiuteranno a definire strategie e gestire penalità, i dati ci possono aituare a prevenire infortuni dei giocatori o conduzione del business, a stabilire connessioni migliori coi tifosi quasi su base individuale, e l’intelligenza artificiale potrà essere di aiuto. I dati fanno parte della mia vita, li ho usati con altri club: funzionano, perché i campioni inglesi sono basati sui dati, ma non solo loro. E’ qualcosa che metteremo in pratica”. LEGGI TUTTO